martedì 26 ottobre 2010

Ogni giorno ce n'è una

Mi chiamo Maurizio e un giorno i miei colleghi m'han detto: scrivi Maurizio, devi scrivere. Ma io non son capace. Fa lo stesso, scrivi. E allora scrivo, dài. Che ogni giorno ce n'è una.

Oggi, per esempio, lavoravo ed è passata la maestra Martina, che bella che è la maestra Martina, c'ha i capelli che le arrivano fino al sedere. Poi come tiene i bambini in fila, c'è sempre Davide che le scappa via, quello lì la fa dannare, ma gli altri no, li tiene in fila, che bella la maestra Martina, e brava. E allora oggi ho preso il coraggio e le ho detto: maestra Martina, che bei capelli che ha. E lei si è avvicinata e m'ha detto: sai, Maurizio, che quando mi faccio la doccia (e già che mi diceva così io ero diventato tutto rosso di sicuro), che mentre mi faccio la doccia i capelli che si staccano dalla testa (così m'ha detto, i capelli che si staccano dalla testa) mi scivolano dentro al sedere (sedere, m'ha detto così, m'ha detto sedere) e fanno tutto un groviglio, un mucchio di capelli tutti annodati che fa anche fatica a staccarsi dal sedere, e dopo con le mani io lo tolgo, tiro, e sembra anche che ci sono un sacco di capelli in quel gomitolo, invece ce ne è uno o due, di capelli, magari; che siccome sono lunghi, allora il gomitolo sembra fatto di tanti capelli, e si potrebbe pensare che io ne abbia persi una montagna e che resto calva, e invece è solo perché sono molto lunghi, che si crea il gomitolo. Maurizio (eh, le ho detto), io mi sa che me li taglio.

Io però non so se lo volevo sapere, del gomitolo di peli dentro il sedere della maestra Martina.

lunedì 11 ottobre 2010

Amor non cessi

E' domenica e c'è la sagra, in paese. Lei sa che lo vedrà, e questa volta per un tempo un po' più lungo dei soliti dieci minuti davanti alla scuola. E' tutta la settimana che aspetta.
Non che vada giù in piazza per lui, no. Però l'idea che lo vedrà aiuta di molto il suo essere lì.
Sarà sicuramente in compagnia della sua ragazza. Tu figurati, pensa lei, se a lui, uno così, posso mai interessare io, una così.

E infatti lui c'é. E lei é felice. E lei non si aspetta nulla di nulla, come tutte le altre volte. C'é. Basta.
E lei quando lo vede si stringe nelle spalle e poi se lo guarda da lontano, come si fa con le cose belle da guardare che sai che non le puoi toccare, né avere mai.

Furtivi, segreti, curiosi. E' solo per il caso, sicuramente, quando si incrociano quattro occhi che girano a guardare tutt'intorno. Sono solo io che immagino, che lui si volti a guardare me. Figurati se uno come lui si interessa a una come me. Si stringe nelle spalle.

E prosegue così, quel pomeriggio, una risata con gli amici, una sbirciatina non vista; una risata, una sbirciatina. Risata, sbirciatina. Bevutina, sbirciatina, risatina, sbirciatina. Bevutina.
C'è lui insieme a quell'altra; c'e lui che ride e si fa gli scherzi stupidini; c'è lui che beve; c'è lui che parla; c'è lui che ascolta; c'e lui che se l'abbraccia tutta e se la bacia anche, tutta. Che sarebbe una tortura, a pensarlo da fuori, stare a guardare l'oggetto d'amore che amoreggia con un'altra. Non ci sono spiegazioni razionali a questo farsi del male. Forse è solo veicolo per la fantasia, a poter sognare di prendere un giorno quel posto lì. Forse, invece, serve ad allontanare meglio qualsiasi speranza cosìcché, una volta per tutte, il cuore si metta in pace e i polmoni smettano di sospirare. Strano, che alla fine non si smetta mai di sperare.

E infatti la fantasia la raccoglie tutta e se la trasporta via, ora; lei si lascia trascinare e sono i baci appassionati con lui davanti al cancello di casa, sono i mano nella mano in giro per le vie, gli sguardi complici, complimenti corpi nudi uniti mani tra i capelli carezze sul viso amore ti voglio anch'io amiamoci sarà bellissimo per sempre oddio come ho fatto a vivere senza di te per fortuna che t'ho incontrata amiamoci ancora e ancora e ancora adesso basta voglio dormire un po' mi hai sfinito di baci e carezze dopo però ricominciamo, ok?
Nel sogno, e sennò che sogno è, è sempre lui che la brama. Anche lei, ma meno.

La fantasia, però, per decreto intimo con se stessa, deve durare poco. Per quanto le piaccia lasciarsi andare al sogno, le fa anche una discreta paura. Ché le fantasie che non s'avverano, alla lunga, fan venire la malinconia; e questa malinconia qui, nel preciso, vuol dire come un senso di perdita di una cosa mai avuta. E il senso di perdita di una cosa mai avuta è anche peggio del senso di perdita di una cosa avuta. Perchè dover lasciare andare una cosa mai avuta è come il dover lasciare andare il Desiderio; smetterla; e smettere di desiderare fa ancora più paura che perdere la cosa desiderata, e questo perchè se perdiamo il desiderio è un po' come se perdessimo noi stessi. Che fa paura. Vaccaboia se lo fa.
Perché è così: a volte ci coglie forte la paura di perdere il fatto stesso di desiderare.

Insomma, pensa che ti ripensa a lui, quella domenica pomeriggio, lei ad un certo punto semplicemente si distrae, si stufa; insomma, smette di guardarlo. Basta. Perché desiderare stanca anche, alla lunga. E così il pensiero, libero dal tarlo di quella passione non corrisposta, finalmente può rivolgersi altrove.
Chiacchiera, gioca, ride.

Finchè, improvvisa, un'urgenza la costringe verso il bagno.

Il bagno si trova dietro a delle capanne da sagra. Chissà cosa ci troverò qui, pensa lei. S'è fatta sera, nel frattempo, ed è un po' buio lì dietro. In quell'antro nascosto, delle luci della sagra non arriva che il bagliore. Entra nel loculo con water (che si fa anche fatica a chiamarlo cesso) in cui c'è scritto donne, a penna, in un foglietto penzolo attaccato su con una striscia di scotch. Solo che, nel richiudersi la porta alle spalle, una mano la blocca. E lei si prende anche un po' paura, a dirla tutta.

E' lui.

L'ha seguita? Impossibile. Che ci fa qui? Non lo so.
Lui, agile e veloce come la polvere, le sguscia dietro ed entra nel piccolo loculo munito di water richiudendosi la porta alle spalle, incastrando entrambi dentro lì.
Si guardano.
Davvero lei non ci capisce niente. Lei e lui, il suo sognato amato bramato lui, dentro il cesso? E perché l'ha seguita?

Sono caduta e sono morta, adesso sto sognando, questa è l'anticamera del paradiso, questo deve essere tipo un premio, un premio che mi danno dentro il cesso puzzoso della domenica della sagra, un premio adeguato alla mia vita. Me lo prendo, questo premio, e dopo muoio e vado in paradiso di sicuro. Non può essere che così.
Sta scappando. sta scappando perché ha dato un pugno in faccia ad uno perchè gli deve dei soldi e adesso questo lo insegue e lui ha pensato di nascondersi dentro qui. In effetti è un nascondiglio perfetto perché chi entrerebbe nel cesso delle donne per dare un cazzotto a uno? Al massimo lo aspetta fuori.
Oppure mi vuole uccidere. Ecco, sì, deve essere così: ha visto che lo guardo, forse l'ho guardato troppo questa settimana fuori da scuola, non dovevo, che impertinente maledetta che sono, sfioro i limiti dello stalking. Lui se ne è accorto e si è stufato e allora mi ucciderà. Ecco, andrà così.

Mi guarda. Ma perché mi guarda ancora? sta cercando il modo di non farmi soffrire, forse. Forse sta cercando nel mio corpo il famoso il punto della scuola di Hokuto in cui mi uccide e non si vede come, io muoio e lui non sarà mai condannato. Sì, dai, è così. Ecco perché continua a guardarmi la faccia con insistenza.

E' allora che lui, senza dire una parola, le prende la testa tra le mani con decisione e le appioppa un lungo bacio sulla bocca. Un bacio semplice, il caldo contatto di labbra che sprofondano.
E poi la molla lì. E la guarda. E sorride.
Anche lei, che non ha nemmeno fatto in tempo a chiudere gli occhi (ma che in verità non ha voluto chiuderli per paura di essere morta e che si stesse verificando l'opzione Uno, quella del paradiso), anche lei sorride. E poi dice:

"Tu sei un maschietto, credo che tu abbia sbagliato cesso".

Ride, lui.

"Devo fare la pipì", dice poi lei guardando il water.
Lui, spavaldo, appoggia una spalla al muro (se possiamo definirlo muro), si infila le mani in tasca e aspetta, zitto.

"Mi scappa la pipì", ribadisce timidamente lei. "Se non vai via, la faccio lo stesso, adesso, con te qui, perché mi scappa proprio forte forte".
"Non ne hai il coraggio".
"Sì, invece, mi scappa e adesso la faccio".

E così lei, visto che lui non si toglie dalla sua posa fiera e gagliarda di spalla appoggiata al muro mani nelle tasche Geims Din, decide di sbottonarsi i pantaloni e lo fa in modo semplice e meccanico, senza alcuna malizia, come tutti i giorni, dedicandosi distrattamente a quelle quattro banali manovre che servono a fare la pipì:

sfilarsi i pantaloni, poi le mutandine, sedersi sul water, aspettare.

Lui, la spalla appoggiata al muro, la guarda e sorride.
E anche lei (la morte scampata), seduta sul water, i calzoni e le mutande afflosciate sulle caviglie, i gomiti appoggiati alle ginocchia, le mani a tenere il viso, lo guarda con due occhi grandi così. Però non sorride tanto, in verità, perché la pipì le scappa proprio forte.

"Fin qui son bravi tutti", dice lui. "Adesso voglio vedere se hai il coraggio di farla, se viene giù, con me qui che ti sto a guardare".

Devo farcela, pensa senza più guardarlo negli occhi. Non voglio certo dargli la soddisfazione di non riuscire a fare la pipì. E poi, se riesco a fare la pipì davanti a lui, la cosa lo farà senz'altro innamorare.
Si guarda le dita delle mani sovrapensiero, poi gira lo sguardo verso la cartigenica, quello sguardo assente come a cercare concentrazione per il momento in cui la pipì decide di uscire. Spingere non serve, tocca lasciare andare, invece. Che poi, se esce il primo goccio è fatta, sei a posto.
Si rilassa cercando di non pensare che lui è lì (impresa per niente facile), chiude gli occhi, inarca la testa leggermente all'indietro e si lascia andare in un breve un sospiro. Esce, lento, il primo caldo goccio liberatorio, seguito dallo scrosciare di una lunga e alquanto goduta pisciata.
Non sono morta ammazzata dal mio amore e sto finalmente facendo la pipì. Cosa posso volere di più, io?

"Ma lo sai, te, che questa qui è una cosa molto più intima che se avessimo mai fatto all'amore?"

Lei riapre gli occhi, prende un pezzo di cartigenica, guarda sorridendo il ragazzo bello Geims Din appoggiato con la spalla al muro e le mani in tasca, e si asciuga. Poi si alza, solleva le mutandine, solleva i calzoni, sistema la maglietta, tira l'acqua e si mette in piedi davanti alla porta aspettando che lui la apra.

Forse l'ho fatto innamorare, pensa lei.
Forse mi sto innamorando, pensa lui.

Poi escono e si avviano, senza nemmeno guardarsi, ognuno nella sua direzione, fieri complici di un trasgressivo atto d'amore appena nato.

lunedì 4 ottobre 2010

Poesia dell'Ahamore stanco

- Amore...
- Sì?
- ti voglio dedicare una poesia.
- ohchebello!
- si chiama Poesia dell'amore stanco.
- ah.
- senti eh
- sentiamo.

Poesia dell'amore stanco


Voglio fare l'amore
stanco.

Le tue mammelle

- mammelle? che poesia, amore!
- mammelle, sì. zitta che il poeta sono io.
- ambè, certo.

le tue mammelle
(sei pregata di non interrompere, per favore)
le tue mammelle
pendono

- Pendono? PENDONO?
- ma stai zitta?
- ...
- mi tocca ricominciare
- no, ti prego.
- e invece sì.

Voglio fare l'amore
stanco.
Le tue mammelle pendono
pendono

pendono

pendono

pendono


- e ho capito, che pendono! Ma serve proprio dirlo tutte queste volte?
- Certo che sì! E' per creare pathos nel pubblico.
- ah certo! il pubblico.

pendono
...

- e questa pausa?
- sempre il pathos.
- senti, hai mai pensato di fare il poeta per vivere? no, perché ti vedo bene sai? c'è del talento in te.
- zitta che mi sconcentri. Eravamo?
- alle mammelle che pendono
- ah, giusto.

pendono pendono pendonopendonopendonopendonopendonopendonopendonop


- ma cosa fai? acceleri anche, adesso?
- ZI-TTA!

pendono
sulla mia bocca.

Soffoco.


Fine.

- ...
- Piace, amore, la poesia dell'amore stanco?
- Non si vede dalla faccia?
- Mh, non saprei. Posso toccarti le mammelle?
- no.


Nota a pie' pagina: questa è una poesia che appartiene al purtroppo non ancora famoso stile poetico chiamato (da me) "stile della poesia inframezzata", stile del quale peraltro esiste solo un altro tentativo (mio) che se avete molto coraggio, trovate qui.

venerdì 1 ottobre 2010

Quello che vuoi

Quando hai tre anni ti danno un foglio completamente bianco, dimensione A3, le tempere, e tu ti puoi sfogare e fare quello che vuoi. Lo chiameranno "disegno libero". E se ci dai di palmo di mani di dita di braccio; e se ti sporchi dal naso alle scarpe; e se il disegno cambia, che prima è un cerchio di un colore solo, e poi diventa via via un ammasso di colori; e sempre di più, sempre di più; e se poi colorando ci provi un tale gusto che colori con tutto il corpo e allora ci metti trecento colori; e se alla fine, dai dai, l'A3 è tutto un pastrocchio marrone che gronda tempera in ogni dove...

fa niente.

Stai sperimentando. E' bellissimo, ti diranno.

Poi cresci e il foglio che ti danno diventa un A4, ancora bianco, ma solo ogni tanto sarà un disegno libero. Per lo più ti chiederanno un disegno dei tuoi genitori, del tuo amico, della tua scuola, della cosachetièpiaciutadipiù.

Cresci ancora, poi, e ti trovi a scrivere su dei quadretti di un centimetro in fogli tutti attaccati tra loro. Si chiama quaderno, ti diranno, e devi andare dalla prima all'ultima pagina, in ordine. E devi fare quello che ti chiedono, per lo più. Se sei fortunato (molto), quando sbagli non strappano il foglio e non ti fanno rifare tutto da capo.

Poi cresci ancora, e ti trovi con i quaderni con il margine, certe righe stranissime e i quadretti sono ancora più piccoli.
E più cresci, più i quadretti si restringono, anche le righe cambiano e continuano ad esserci i margini; e se non ci sono più i margini è perché hai imparato da solo a rispettarli. Intanto il foglio è sempre più piccolo e pieno di bordi e righe e quadretti. E tu ormai hai imparato come si fa. E l'hai imparato talmente bene che ti viene naturale, così naturale che è una cosa che fai senza nemmeno pensarci. Di stare dentro i quadretti, di scrivere dritto dentro le righe, di non uscire dai margini (addirittura sei così bravo che li vedi e li rispetti anche quando non ci sono).

Poi.
Poi magari un giorno (sei diventato grande) succede che ti danno (o ti prendi) un foglio A3 bianco, tempo e ogni strumento possibile e immaginabile. E poi ti dicono (o ti dici): sei libero, fai quello che vuoi.

E tu vai nel panico.