lunedì 20 febbraio 2012

poesia inconsapevole 2

Lei guardava fuori dalla finestra, seduta e ferma.
Mi sono avvicinata e siamo rimaste un po' lì, ferme, a guardare fuori.
Le ho detto: come sei poetica, così, mentre guardi pensierosa fuori dalla finestra. Cosa stai guardando?

C'è il vento e gocciola, gocciola molto.
Mi ha detto.

(Xhoana, 4 anni)

martedì 14 febbraio 2012

Esse dentro a' dilicati petti

"Esse dentro a' dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l'amorose fiamme nascoste, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l'hanno provate: e oltre a ciò, ristrette da' voleri, da' piaceri, da' comandamenti de' padri, delle madri, de' fratelli e de' mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopraviene nelle loro menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle son molto meno forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l'andare a torno, udire e vedere molte cose, uccellare, cacciare , pescare, cavalcare, giuocare o mercatare: de' quali modi ciascuno ha forza di trattare, o in tutto o in parte, l'animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con un altro, o consolazion sopravviene o diventa noia minore."

Boccaccio, Decameron (proemio), 1351

sabato 11 febbraio 2012

la panna cotta

Era successo così: un giorno lei aveva portato a scuola la panna cotta e lui aveva molto gradito e, finito di pulire, s'erano messi a mangiarla. Lui la trovò squisita, la panna cotta più buona che avesse mai mangiato, e allora glielo disse, e lei aveva un sorriso, ma un sorriso, che lui era certo che era ancora più buono della panna cotta, a poterlo mangiare.
E così un giorno lui le chiese di rifarla, la panna cotta.
E lei la rifece, mangiarono insieme, lui si complimentò (più buona di quella dell'altra volta, disse), lei sorrise e il loro cuore si riempiva mano a mano che la panna cotta spariva dal piattino.

I giorni passavano e, come un rituale tra amici che si vogliono bene, le panne cotte arrivavano sulla tavola con regolarità. Lui ringraziava, lei sorrideva. Si guardavano ed erano felici.

Dopo un po' di tempo, forse mesi, forse anni, Alberto non ne poteva più di mangiare panna cotta. Solo che non aveva cuore di dirle di no, lei ci sarebbe rimasta male, pensava; si vedeva che lo faceva con tanto amore. E poi quel sorrriso, come poteva rinunciare? Come poteva rischiare di non vederlo più? E così, ogni volta, la mangiava, le faceva i complimenti e lei sorrideva. E lui era felice.

Alice non ne poteva più di fare la panna cotta. Solo che come faceva a non farla più? Lui tutte le volte la guardava con degli occhi che le facevano diventare il cuore più grande, si portava a casa quello sguardo e si sentiva meno sola; e poi lui ci sarebbe rimasto male, pensava, come l'avrebbe presa? magari pensava che lei non gli voleva bene più, che lei avesse delle stanchezze; invece no, assolutamente, lei lo adorava tanto, ad Alberto, davvero. E allora faceva la panna cotta, per lui, per lei, per loro.

Mangiarono tantissima panna cotta; e tutte le volte che lei la portava lui le faceva i complimenti e lei sorrideva e si volevano bene.

E insomma non si dissero mai quanto bene si volevano, ma per me se ne volevano tantissimo.

domenica 5 febbraio 2012

il distributore

Mi ricordo, correva l'anno 1994, era gennaio, io ero in Argentina e viaggiavo con un'amica e uno zaino piccolissimo, un invicta in cui c'era veramente lo stretto necessario per un viaggio che durò 40 giorni. Ero in Argentina e in quella tappa viaggiavamo in un pullman che ci avrebbe portato a sud. Un viaggio che durò dal tramonto all'alba.
Ricordo la strada dritta e il sole che tramontava a destra e la mattina dopo sorgeva a sinistra, e che nel frattempo era cambiata solo la posizione del corpo sulla poltrona del pullman.
Ma quella non fu l'unica cosa che mi affascinò.

Come è noto lì la bevanda è il mate e per berla (seguono descrizioni brutali, perdonatemi, o voi argentini) bisogna scaldare l'acqua e poi metterla dentro il mate (il contenitore) dove prima si era messa la yerba e poi, con una cannuccia fatta apposta, succhi il liquido che si forma, una specie di tè dal sapore forte. Ed è un'azione collettiva perché se siamo in sei, in sei beviamo tutti dallo stesso mate e dalla stessa cannuccia, e questo viene passato da mano a mano; ogni tanto si aggiunge acqua. Tutti bevono Mate dalla mattina alla sera, si portano in gita l'occorrente, non manca in nessuna pausa del giorno e ogni scusa è buona.

Mentre scendavamo giù al sud con il pullman, quella notte, avevo notato che l'autista aveva il suo mate (tiene svegli, un po' come il caffè, anzi di più).
Più scendavamo al sud e più era freddo, stavamo per andare a Calafate dove c'è il famoso ghiacciaio, il Perito Moreno, e anche se era estate, all'epoca, lì, faceva un freddo cane.
Ebbene, ad un certo punto il pulmann fa una pausa. Scendiamo a sgranchirci le gambe, saranno state le due di notte, e io mi accorgo che c'è un distributore dove la gente va con il termos per riempirlo di acqua. Grande! ho pensato, Che segno di civiltà. Ma ancora è niente: il distributore distribuiva acqua calda per farsi il mate. Acqua calda, capite?

Ricordo che questa cosa qui,dell'acqua calda, mi aveva affascinato moltissimo.
E così ieri, mentre studiavo alcune cose che riguardano il rapporto tra oralità e scrittura, narrazione e oralità terziaria, mi è tornato in mente quel distributore e poi mi è venuto da mettere le due cose in relazione.

E mi è nata un'idea: il distributore di storie.

Cosa sarebbe trovare alla fermata dell'autobus, o della metro, un distributore di storie gratuito? Ne abbiamo bisogno come dell'acqua calda per il mate, di storie, e allora c'è questo distributore in cui tu infili una chiavetta usb o il cavo del telefono supertecnologico e ti scarichi delle storie, che poi sono le storie di altri che, con la loro chiavetta usb o cavo o chennesò, hanno riempito il distributore. E infatti se vuoi puoi anche mettererci dentro le tue, di storie.

Il distributore gratuito di storie. Per me l'umanità progredirebbe un sacco.

(io, se esistesse, ogni tanto andrei ad abbracciarlo)



venerdì 3 febbraio 2012

ma come faceva mia nonna?


Dite ciao alla bambina che adesso arriva il matarello.

Poi ho iniziato a darci con mattarello.

Ma come diavolo faceva la mia nonna a ottant'anni a tirare la sfoglia? Ho il fiatone e sono a metà, ciao vado in farmacia a comprare il lasonil che tanto so già che domani avrò l'acido lattico anche nei muscoli delle caviglie, riempio la vasca e mi ci tuffo dentro, al lasonil. Ci vuole il fisico allenato, bisogna andare in palestra e fare le flessioni, per tirarela sfglia, venti al giorno, prescrizione medica. Sì, perché quando tiri la sfoglia muovi tutto il corpo, ondeggiano le anche, i piedi devono essere ben piantati per terra, colpi secchi e ritmati di reni e giù di braccia e di polsi.
Ma se le donne davano gli scapaccioni ai burdèl, con quelle braccia da sfoglia giornaliera, i voli da qui a lì ti facevano fare, le donnne della sfoglia (che poi i burdèl hanno quei gamberilli magri...pori burdelas). Io, se provo a dare uno scapaccione ai miei figli, mi dicono: mamma, mi hai chiamato?
Sarò io che non sono esperta ma vi dico, c'ho il fiatone.

Insomma, c'è la neve e allora non sono andata a scuola che è chiusa, e mi è venuta questa idea molto romantica di fare la sfoglia.
Adesso vado, è lì a metà che mi aspetta, mi son dovuta riposare per prendere fiato.